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IL "CULTO" DI SANT'AGNESE

Sant'Agnese, festa tutta aquilana, nella storia e nella leggenda
di Amedeo Esposito

da "Il Pianeta Maldicenza"
Edizioni TEXTUS

LA FESTA STRANA
Dall'incontro sul colle, che n'era confine, delle genti della Roma di Sallustio e di quelle dell'italico Guerriero, s'ebbe L'Aquila.

Città libera, disegnata sulla carta, come successivamente fu solo, tre secoli fa, per Sanpietroburgo e nel secolo scorso per Brasilia, crebbe e si integrò nel vasto processo di modernizzazione europea di allora, pur nelle diverse visioni dei confederati. Da cui principiò quello che nei secoli successivi fu il segno distintivo degli aquilani: la maldicenza. Questa - forse verità criptata - alimentò all'Aquila il dibattito intorno alla libertà di pensiero e di azione, o ancor più propriamente intorno al clima intellettuale del Settecento: un commonwealth del sapere nel quale si concretizzò l'aquilanità. Quell'inafferrabile idealità di clan, di appartenenza al gruppo dall'incontro degli abitanti dei castelli che la costruirono. Incisa sulle pietre delle 99 Cannelle, è divenuta sole della storia e del futuro della città.

Il liberismo comunale del Tre-quattrocento anticipatore dello spirito di emancipazione illuminista, sviluppatosi in Italia, toccò anche L'Aquila per cui vantò alcuni primati, compreso quello dato dalla singolare e popolare Festa strana di Sant'Agnese, mai codificata.

Sull' interpretazione storica della quale s'è accanita nel tempo l'acribia di alcuni studiosi i quali hanno prospettato in maniera non univoca, né esaustiva, il fenomeno popolare che è la festa laica di Sant'Agnese del 21 gennaio, derivata dalla liturgia della festa spirituale della Chiesa, che investe da secoli i soli aquilani entro le mura, custodi di una tradizione tramandata da consuetudine quasi inconscia.

Di qui la domanda ricorrente: che cos'è questa esclusiva festa aquilana? La risposta, o meglio le risposte non sono facili, mancando riferimenti certi, e comprovati da atti specifici.

La singolarità seducente dell'Aquila della malelingue - secondo i più accreditati saggi sulla materia (1) - è verosimilmente frutto di circostanze lente e delicate, date dall'umiliazione del popolo minuto, e ancor più da quella delle malmaritate oggi passeggiatrici. A cui la città reagì con la celebrazione della memoria e i simboli di una fratellanza a volte segreta , o comunque di complicità corale, anche per esorcizzare il proprio stato di libertà, e quando si è verificato, di schiavitù.

Sicché, solo riflettendo sul divenire della storia della giovane città, qual è L'Aquila (2) , è possibile tracciare un percorso - pur destando qualche riserva nella storiografia ufficiale - di questa festa locale che è tenuta in vita nel generoso tentativo di conservare la tanto decantata anima aquilana, o aquilanità.

Certo non è facile percepire quest' anima entro un contesto laico e ludico, spesso blasfemo, che muove, per dissoluzione, da una luminosa figura di martire cristiana di una giovanetta quale fu, per il martirologio della Chiesa, Sant'Agnese.


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SANT'AGNESE VERGINE E MARTIRE
La Santa, pura, vergine e martire, una delle prime sante cristiane, visse a Roma all'epoca delle persecuzioni di Diocleziano. Narra la Legenda aurea che

«fu corteggiata con grande assiduità dal prefetto romano, ma lo respinse con fermezza dichiarando di essere votata al suo sposo celeste. Quando, per l'amore non corrisposto, il giovane funzionario si ammalò, la cosa giunse all'orecchio del padre di questi, il quale convocò Agnese e, saputo che era cristiana, le ingiunse di offrire un sacrificio agli dei romani» Al rifiuto, la giovanetta (non doveva avere più di 12-13 anni) dapprima fu esposta al pubblico ludibrio, portata ignuda per le vie di Roma, coperta solo dai lunghi capelli che le erano miracolosamente cresciuti, e poi buttata in un prostibolo. Dove però un angelo la nascose alla vista dei presenti.

Giunse nella casa chiusa del tempo «il corteggiatore, deciso a possederla,ma un demone lo colpì dandogli la morte. Agnese fu condotta al rogo per essere bruciata come strega, ma le fiamme la lasciarono indenne e arsero invece i suoi persecutori. Infine fu decapitata…Il tema ricorrente della giovane martire cristiana gettata in un prostibolo sembra trarre origine da una legge romana che vietava di giustiziare le vergini: esse venivano quindi violentate prima di essere messe a morte»

Fu grande la devozione per la che già nei primi decenni di IV secolo, e ancor più nel V secolo era praticata da tutta la chiesa. Dapprima la Santa era onorata nella chiesa di "S.Agnese in Agone", nei cui pressi la giovanetta fu esposta in segno di scherno. Dal 1564, e nei secoli successivi fino a noi, la Santa è venerata nella celebre Basilica romana di "S:Agnese fuori le mura" (3) , che sorge sulla via Nomentana. La Basilica fu eretta prima del 350, sulle catacombe che accoglievano, con i resti di altri martiri, quelli della Santa.

Il 21 gennaio (questo il giorno della festa fissato dal calendario liturgico), in essa si svolge un'antica cerimonia: quella della benedizione sull'altare di S.Agnese di due agnelli, la cui lana serve per la confezione dei sacri pallii (4). I due agnelli vengono offerti dai padriTrappisti delle Tre Fontane, e consegnati poi alle monache Benedettine di Santa Cecilia, per la filatura della lana.

Il culto della Martire si diffuse all'Aquila, fin dai primi del Trecento, per via dell'omonimo monastero sito a ridosso delle mura del Quarto di S.Maria Paganica, ch'ebbe molti rifacimenti. Fu abitato dalle "monache della povera vita o elemosinanti", che divennero poi celestine di Collemaggio, le quali accoglievano le cosiddette "pentite o mal maritate". Nel 1807 il monastero e la chiesa annessa, lasciati dalle suore, furono adibiti a caserme. Solo nel 1856, dopo il restauro voluto dal vescovo Girolamo Manieri, vi entrarono le Suore Stimmatine che vi istituirono un conservatorio per le trovatelle. Vi trovavano ospitalità anche "donne da redimere".

Nel 1874, trasferite le suore, il complesso conventuale venne inglobato nelle strutture dell'Ospedale "San Salvatore" di viale Nizza, dove ancora sono visibili sia gli ambienti monastici e sia la bella chiesa di Sant'Agnese, cappella del nosocomio fino al trasferimento dello stesso a Coppito.





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LA DEVOZIONE DELLE MALMARITATE
Le malmaritate e le donne da redimere, le prostitute del tempo, alla fine del loro lavoro di serve, con tutte le conseguenze che tale ruolo comportava in tempi in cui nulla valeva la moralità delle popolane, spinte dalla fame nel più antico dei mestieri, venivano accolte dalle suore di Sant'Agnese, alcune appartenenti alle famiglie nobili della città

Le serve - com'è noto ed intuibile - conoscevano ovviamente i segreti delle case gentilizie, che "mettevano in piazza" entro e fuori il convento. Il ritmo della loro esistenza era naturalmente scandito dalla campana del monastero. Sicchè, erano in festa e libere nella ricorrenza del martirio di Sant'Agnese, la celebrazione del quale fu fissato dal martirologio ecclesiastico il 21 gennaio, giorno in cui - secondo gli statuti del 1300 - era vietato lavorare.

Una festa senza l'impegno lavorativo era motivo di incontri, soprattutto per le classi sociali più basse e per i diseredati, allora non pochi in una città che contava "ricchi potenti" e numerosissimi "poveri inermi". Era proprio nei giorni di festa che i nobili divenivano magnanimi nei confronti dei poveri.

Una festa di popolo - che quasi contemporaneamente prese anche la borghesia ed i nobili - che si svolgeva, dato il clima aquilano, nel chiuso delle fumose bettole del tempo, dove le "malmaritate", magari consumando sentimenti di vendetta, davano sfogo, complici gli uomini, alla maldicenza e al pettegolezzo, riferendo tutto quanto era in loro conoscenza, e anche più, delle case in cui erano serve, ma pure trastullo dei signori. Quest'ultimi oggetto dei conversari popolari più morbosi, quanto più risultavano viziosi.

Dunque, Santa Agnese fu buttata in postribolo. Tutto questo potrebbe dare, e forse dà la spiegazione della devozione alla Santa, naturalmente senza che la chiesa l'abbia mai ammessa, da parte delle malmaritate o prostitute.

Le quali fondarono la loro venerazione nella purezza della Martire, di cui fecero speranza catartica, come nel canto del poeta francese Charles Péguy (1873-1914): «sperare è dolce, più dolce che credere, più dolce che sapere. La certezza ti appaga. La fede ti illumina, ma la speranza ti incanta».

Anche per questa devozione si deve parlare di primato dell'Aquila, in quanto è qui che nacque tale pratica fra le donne ospiti delle case chiuse della città. Le stesse, quelle in particolare dei primi del Novecento, nei loro giri di quindicina, catechizzavano le altre colleghe, per cui si trovarono ad un certo tempo devote a Santa Agnese anche in altre città.

In particolare nella senese Montepulciano per il richiamo ch'ebbe l'antico monastero di Santa Maria Novella, costruito intorno al 1290, alla domenicana Agnese Segni, poi Sant'Agnese, su un sito fuori le mura dove sorgeva un lupanare, per riparare a tanta ignominia, come è detto nei cenni storici sulla Santa protettrice dei poliziani (gli abitanti di Montepulciano)

Il primato, mai messo in discussione dagli aquilani, non piacque in particolare al prevosto di San Pietro a Coppito (di Sassa), monsignor Giuseppe Quaianni. Il quale il 21 gennaio degli anni che vanno dal 1930 al 1959, chiudeva la chiesa perché non vi entrassero le ospiti delle case chiuse di via Cppito e di via della Mezzaluna. Come dire: sfruttate allora dallo Stato quelle "paccatrici" erano rifiutate anche dalla Chiesa.

L'iniziativa di monsignor Quaianni, tuttaviam sia pure a distanza di 44 anni, ha avuto la piena condivisione dall'Arcivescovo monsignor Giuseppe Molinari, perché - ha precisato - "un uomo di Dio aiuta la gente a convertirsi, non a prendere in giro Dio e suoi comandamenti" .





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PROTETTRICE DELLE MALELINGUE
Abbiamo così, in maniera anche convincente, risolto il problema della protezione delle prostitute da parte della Santa Agnese laica aquilana.

Non è però altrettanto intelligibile la elezione popolare della stessa a protettrice delle malelingue a cui si può giungere solo attraverso la ricostruzione - come ho fatto - di avvenimenti che ebbero inizio nel lontano Medioevo, con varie presumibili interpretazioni mai codificate. Che, comunque, affondarono le radici nella fame endemica dei popolani e delle popolane fin dal '400, per sempre più accentuarsi nei secoli successivi, e rendersi visibile alla fine del Secolo dei Lumi e, in successione delle varie categorie artigianali e nobiliari, fino ai nostri giorni, nei diversi aspetti che conosciamo.

Si è detto della fame endemica del popolo minore che, partecipe della vita della città libera, governata dalle Arti o dalla nobiltà (come nel caso dei Camponeschi), fu lo strato sociale più ricettivo del generale e diffuso uso dello scherno, dell'insulto e della maldicenza per vincere finanche le guerre.

Sì, le guerre!

Come nel caso di quella sanguinosa contro Braccio Fortebbraccio da Montone (maggio 1423-giugno 1424), contro il quale, dall'alto delle mura, gli aquilani inviavano ogni sorta di invettiva.

Scrive Luigi Lopez ne "La guerra aquilana di Braccio da Montone":

«…gli aquilani gli davano ( a Fortebraccio) del vigliacco, lo chiamavano rattrappito, trappu, perché aveva la gamba sinistra anchilosata; chiamandolo attraverso il nome della moglie, Nicoletta Varano, dei signori di Camerino. Gli davano anche del miscredente, offesa allora piuttosto pesante, e soprattutto gli ricordavano le infamie da lui operate recentemente contro gli uomini e ancor più contro le donne, in ogni modo assicurandolo che presto avrebbe pagato tutto».
Come narra l'Anonimo (7)
…«O can menescredente,
Che ad hommy et donne fact'ay vellanya,
Pagatu ne serray certanamente;
Aspecta nostra gente, non fugire,
Pagatu ne sarray del tou fallire».
De vellanya li fò dicta infinita:
«Marito de Nicola, trappu, codardu!»
Bracciu n'avya superbia infolonita;
All'Aquila menaccya e fa reguardo.

Non meno esplicite furono le offese rivolte dagli aquilani agli Amatriciani, scesi in battaglia al fianco del Signore di Perugia. Agli insulti ed alle derisioni di questi ultimi, accampati sotto le mura di S.Lorenzo (dove oggi sorge l'Emiciclo), gli aquilani rispondevano col chiamarli falsi e gavazzatori, cioè gozzovigliatori (segno che la cucina amatriciana era famosa già in quel tempo).

La maldicenza, con gli insulti e le offese, furono essenza del vivere nella città confederata, fin dalla sua prima costruzione.


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STATUTI ED EDITTI CONTRO LA MALDICENZA
Tutto era ordinato dagli statuti. Scrive Raffaele Colapietra: gli statuti ci parlando anche dei ritmi, della campane cittadine, la Reatinella, che la campana media, la squilla di S.Massino e lo squillane di Santa Maria Paganica che danno il segno dell'apertura e chiusura del mercato, come anche della apertura e chusura delle porte, della fine della vendita del pesce e di altre cose di questo genere su cui è inutile soffermarsi. Comunque una certa struttura che c'è già alla metà del Trecento è quella che si riferisce alla celebrazione della festività popolari e ad un riturale funebre , in certe circostanze. Preso i rimatori ed i cronisti Tre-quattrocenteschi, che rimangono una delle fonti principali per la storia del Medioevo aquilano - soltanto per l'avanzato Quattrocento cominciano a disporre di una documentazione consistente, per cui possiamo fare capo direttamente alle fonti, cioè al documento vero e proprio - Antonio di Buccio, che è il modesto prosecutore di Buccio, assai più mediocre dal punto di vista poetico, ci dà informane su certe situazioni di festosità popolare, per esempio la festa di Sant'Agnese, il 21 gennaio che viene proclamata con palme etc..perché è venuta fuori la notizia della tregua che i fuoriusciti hanno fatto fuori dell'Aquila e quindi della pace che si sta per riottenere in città. Santa Agnese fu proclamata protettrice della città (8).

Ancora Luigi Lopez, nel suo "gli ordinamenti dell'Aquila", e cioè gli statuti - «le leggi che la città diede a se stessa nel divenire dei secoli» - offrono una tale messe di notizie sullo svolgimento soprattutto dell'attività delle magistratura (camerlenghi, Capitani etc.) contro cui si appuntarono sempre le critiche dei populares, non meno che dei nobili.

Nel 1315 il camerlengo «collegava al suo ruolo anche di cassiere e custode del denaro pubblico…Pagano a lui la multa stabilita dagli Statuti i bestemmiatori, coloro che lavorano nei giorni festivi, coloro che fanno rumore in chiesa durante i divini uffici, coloro che fanno regali troppo costosi in occasione di battesimi e cresime, il cittadino che fa da avvocato o procuratore contro la città, chi partecipa senza averne diritto alla elezione del giudice civile, chi - giudice o notaio - rifiuti l'incarico di sindacatore».

Ed ancora, con riferimento agli anni anteriori e posteriori al 1355:

«…il Consiglio (generale delle Arti) era convocato (mai di domenica o nelle festività doppie) dal Capitano e i consiglieri erano tenuti ad intervenire e in orario: pena quattro soldi per gli assenti non giustificati e dodici denari per chi giungeva in ritardo…Al fine di non far perdere ai consiglieri tempo prezioso, era vietato all'oratore di ripetere cose già dette da altri, dovendo egli limitarsi o a contraddire i pareri di altri o a modificarli in un senso o nell'altro, pena dodici denari…Nessun consigliere poteva interrompere chi stava parlando, pena dodici denari»

Si possono immaginare le cortesie che si scambiavano, per gli Statuti del 1327, il Camerlengo ed il vescovo del tempo. Il primo aveva l'obbligo

«…di tutelare, se necessario anche inviando ambasciatori al re, i cittadini aquilani vittime di abusi da parte del Vescovo e dei suoi collaboratori.

Così come era impegnato «ad invitare lo stesso Vescovo, a nome della città, a far rispettare "tenaciter" dai chierici il divieto di importazione di vino forestiero».

Non s'abbia a presumere che l'applicazione degli Statuti non comportasse discordie, invidie e maldicenza.

La "prova regina" ci è data, nel 1476, quando Ferrante d'Aragona nominò suo Luogotente all'Aquila Antonio Cicinello.

«Qualche giorno dopo (il suo arrivo all'Aquila) - riferisce sempre Luigi Lopez - essendogli giunte all'orecchio parole poco gradite (vere e proprie gratuite maldicenze), attribuite a un mezzo nipote del conte di Montorio (Pier Lalle Camponeschi), egli (Cicinello), sapiens dominus, chiese un incontro con quest'ulimo e volle che si tenesse alla presenza degli altri Camponeschi, dei Signori della Camera, di due frati di S.Bernardino e di due di S.Francesco…Il burrascoso incontro si svolse nel salone della casa vecchia del conte, vicina all'Annunziata. Il Cicinello esordì con parole di grande amore e stima per la casa Camponeschi…Ma aggiunse anche, a un certo punto, che avrebbe fatto decapitare chi avesse preteso di continuare a comportarsi (cioè a dire maldicenze) come nel passato. Balzò allora come una leonessa, sicut leena facta, la superba contessa Maria Pereira, la nobile spagnola che proprio il re aveva procurato fosse unita in matrimonio a Pietro Lalle, la quale invitò Antonio Cicinello, alter ego del re, a misurare le parole e a non avere l'ardire di minacciare di decapitazione i Camponeschi».

Il Luogotente non avvertì, per sua sfortuna, che la Contessa principiò in quel momento il "venticello della maldicenza" che divenne vero e proprio tornado per il quale Ciciniello morì tragicamente, dopo aver dato alla città uno Statuto più favorevole al popolo, con la limitatezza dell'influenza nel governo dei Camponeschi.

Il 26 e 27 settembre del 1485, infatti, "quelli del Quarto di Sacto Pietro", il quartiere popolare punto di forza dei Camponeschi (da questi subdolamente catechizzati ed eccitati), lo uccisero (il Cicinello), «talliarolo a pezzi e gittarolo dalla finestra dui volte". Cioè da una delle finestre dell'attuale palazzo Picalfieri, dove si era rifugiato, di piazza Santa Margherita (o dei Gesuiti).

Dagli altari alla polvere, fu gettata la città, quando nel 1454 San Giovanni da Capestrano apprese a Cracovia che gli ingrati aquilani in luogo della grande basilica promessa, avevano deciso di costruire una modesta cappella per collocarvi le spoglie di S. Bernadino.

«…solum li aquilani ingrati - scriveva Giovanni Giantedeschi ai maggiorenti della città il 12 maggio 1454 - delli benefitij de Dio dicono voler edificare una cappella che veramente ve deverete vergognare ad acceptare tale rusticano, et per dire la pura verità, sicut soleo e diabolico et carnalaccio consillio el quale diveria puzzare per tucta Ytalia».

Fortuna volle che gli "aquilani ingrati e maldicenti" tornarono sulle loro decisioni ed edificarono per le spoglie del Santo Senese la grande basilica che ancor oggi ammiriamo.

Raffaele Colapietra nel suo suo "Spiritualità coscienza civile e mentalità collettiva nella storia dell'Aquila" (9) afferma che è

«…una città querula e litigiosa, quella che si affaccia agli anni ottanta del Quattrocento, ma sulla base di un disegno reale, di un profondo malessere, che si struttura nel crescente, consapevole distacco della città da quel contado la cui "unio, mixtio et incorporatio" aveva rappresentato a lungo la testimonianza tangibile, ancorché di fatto più che di diritto, di una preminenza indiscussa».

Fu sempre questa "preminenza indiscussa" della città sul contado a creare motivi di malessere, di scherno e sottile maldicenza, fra il popolo e la nobiltà.

Dunque, la maldicenza (nei vari aspetti della beffa o della critica feroce) fu "arte" degli aquilani del Quattrocento e dei secoli successivi.

«…Non a caso - scrive Raffaele Colapietra - sarà nel 1498 un frate non appartenente a comunità aquilana, che il lazzo popolare prenderà a beffa col soprannome di Asino o Barbuto, a diffondere…una pia consuetudine così socialmente importante come il viatico, con accompagnamento di baldacchino, ombrelli e ceri accesi».

E beffa erano i soprannomi dati ai ragazzi:

"spizzica e porta a casa", "sperandomino", "vidime et lassame stare", "saldamacchia", "como piace ad ipso" etc.

Certamente più seria appariva ed era la maldicenza quando si sostituiva all'insofferenza, se non alla ribellione al potere. Che però veniva repressa con rigore, come prova l'editto del 1430, con cui si comminava ai popolani come ai nobili

"l'esilio perpetuo ed il taglio della lingua a chi arringasse contra l'indizione della festa del perdono di Celestino V" (10).

Dunque, L'Aquila d'altri tempi fondò, in una certa misura, la sua esistenza sul pettegolezzo e sulla maldicenza da cui trasse salvezza non già dal potere autoritario (era comune libero), ma se stessa. Finché la lunga notte spagnola non la rese, per due lunghi secoli, società chiusa, immobile, quasi schiava. Solo alla fine del Secolo dei Lumi lentamente e faticosamente riprese in qualche maniera il suo cammino, del tutto dimentico della prosperità dei primi tre secoli di vita. Si tentò di perpetuare il comportamento virtuoso del passato, al fine di salvaguardare, nei limiti del possibile, la parte culturale e qualche manifestazione popolare, come può essere la esclusiva festa laica di Sant'Agnese del 21 gennaio.

Sintesi - si dice - della intelligenza popolare che agli editti di censura, anche i più vincolanti, rispose con un sottile distinguo: era sì, proibito "arringare contra" le manifestazioni pubbliche e le istituzioni, ma non il parlar delle singole persone, a qualunque ceto appartenessero".

Tanto bastò - secondo un accreditato pensiero storico - perché nel tempo si desse fiato alla maldicenza, fissando, vox populi, la giornata da dedicargli: il 21 gennaio e dandosi una patrona: Sant'Agnese.

«Il 27 novembre 1476 - scrive ancora Raffaele Colapietra - era morto il cardinale Amico Agnifili, ed i suoi funerali solennissimi, con la dote elargita a cento zitelle ed altrettanti poveri raccolti intorno al catafalco in panno bruno carfagno…stavano a chiudere un'epoca», senza mutare però le condizioni miserande del "popolo minore".

Divenne così consuetudine la festa del 21 gennaio che, nel traslato dalla ricorrenza religiosa a quella laica-ludica, divenne festa popolare, corale, profana ed anche blasfema nel momento in cui la Santa si riguardò come "protettrice delle malelingue" e "protettrice delle prostitute".

Festa laica che nei primi del Novecento ebbe una giustificazione, quasi teologica, da parte del francescano padre Donatangelo Lupinetti, il quale sostenne che il parlar male degli altri, pur se amati, rappresenterebbe per ogni uomo una liberazione interiore dalle proprie ubbie.

Tale tesi però non convince l'Arcivescovo metrpolita, monsignor Giuseppe Molinari, il quale sostiene che «ci sono modi più evangelici per raggiungere un'autentica liberazione interiore».

Riferendosi alla "festa strana" che investe tutta la città intra moenia, lo stesso Arcivescovo dice che «purtroppo non è la prima volta e non solo all'Aquila, che tradizioni profane nascono da tradizioni religiose. Ciò avviene quando la fede autentica cede il posto ad una pratica religiosa superficiale e ad una religione quasi esclusivamente sociologica».

Si aggiunge così, ai molti altri, un elemento di particolare rilevanza nel vasto campo delle interpretazioni possibili del fenomeno solo aquilano, in una ottica di fede: quando quella autentica cede o si affievolisce, subentra inevitabilmente una religione sociologica che sfocia - come avverrà dall'Ottocento in poi e fino a noi - in una visione che molti definiscono o sospettano massonica, non necessariamente ortodossa.

In qualche misura, le Sant'Agnese dell'Ottocento e dei primi del Novecento delle classi borghesi e nobili (esclusa la nobiltà "nera" romana) si risolsero in incontri di critica e protesta di stampo anticlericale e anarchico, come provano gli scontri polemici sui numerosi giornali del tempo, espressione delle varie consorterie.

Si lasciarono alle corporazioni dei barbieri gli aspetti ludici della "festa strana", la quale non acquisì una fisionomia netta e decisa, per le contaminazioni sostanziali popolari subite dal "rito" tradizionale.

Fra l'altro, ad esempio, si aggiunsero i balli che numerosi si svolsero nel Teatro Comunale.

Al precedente semplice cerimoniale (non scritto, ma tramandato dalla consuetudine), che prevedeva la sola nomina del "primo dei loquaci", indicato successivamente eufemisticamente priore, si aggiunsero altre cariche e soprattutto diversi simboli, come la "lingua rossa" e le "forbici", per cui si fissò definitivamente il carattere popolare della festa pervenuta fino a noi.

Del resto, sia pure per uno "scherzo goliardico" di alcuni giornalisti, l'Arcivescovo Molinari fu incoronato "priore" dell'improvvisata Sant'Agnese laica del 21 gennaio 2001.

Festa, con divieto di lavoro, era anche quella del 17 gennaio dedicata a S.Antonio Abate, protettore degli animali.

Fenomeno popolare tutto e solo aquilano che fu assimilato ad una lontana pratica religiosa: la rievocazione del 21 gennaio (secondo il calendario liturgico) del martirio di Sant'Agnese. Da cui, già nel '300 la stessa Martire, vox populi, fu elevata a protettrice dei linguacciuti e delle prostitute.


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SPERANZA CATARTICA PER LE PROSTITUTE
Quest'ultime fondarono la loro venerazione nella purezza della Martire, della quale fecero speranza catartica - aggiungiamo noi - come nel canto del poeta Charles Péguy (1873-1914): «Sperare è dolce, più dolce che credere, più dolce che sapere. La certezza ti appaga, la fede ti illumina, ma la speranza ti incanta»

Si dovettero però attendere le prostitute delle case chiuse aquilane del Novecento, perché si desse visibilità da parte delle stesse alla devozione verso la Martire, mai ammessa dalla Chiesa. Diffondendola poi fra le colleghe di altre città, nei loro giri di quindicina.

In particolare nella senese Montepulciano per il richiamo ch'ebbe l'antico monastero di Santa Maria Novella, costruito intorno al 1290, dalla domenicana Agnese Segni, poi Sant'Agnese, su un sito fuori le mura dove sorgeva un lupanare, per riparare a tanta ignominia, come è detto nei cenni storici (5) sulla Santa protettrice dei poliziani (gli abitanti di Montepulciano).

Tale primato non piacque però al prevosto di San Pietro a Coppito, monsignor Giuseppe Quaianni, il quale, per circa 30 anni dal 1930 al '59, il 21 gennaio tenne sbarrata la chiesa per evitare che vi entrassero le ospiti delle case chiuse di via Coppito e di via Mezzaluna. Scelta questa del Prevosto condivisa pienamente dall'Arcivescovo metropolita, monsignor Giuseppe Molinari, perché «…un uomo di Dio aiuta la gente a convertirsi, non a prendere in giro Dio e suoi comandamenti» (6).





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L'AQUILA DELLE MALELINGUE
Sorse e vive da allora, quale singolarità seducente, L'Aquila delle malelingue, fondata sull'umiliazione del popolo minuto, che fu il più ricettivo del generale e diffuso uso dello scherno, dell'insulto e della maldicenza. I linguacciuti fecero del "no!" a cedere ad un giovane romano, gridato dalla loro protettrice, per cui fu martirizzata, il vessillo della loro libertà di confederati che, appunto, sventolavano parlando male anche di chi amavano. Ben sapendo ciò che Silone tanto più tardi disse: «…non preghiamo Dio di farci ricchi, non ci ascolterebbe».

Animate furono le discussioni di uomini e donne entro le fumose bettole del tempo, al riparo dei rigori invernali, il 21 gennaio, giorno in cui era proibito lavorare.

E ciò permetteva alle serve- come venivano chiamate le malmaritate - di uscire libere dal monastero di Sant'Agnese, dove erano caritativamente ricoverate. Già attivo nella seconda metà del '300 e sito a ridosso delle mura del Quarto di Santa Maria Paganica, il convento fu inglobato nel 1874 nelle strutture dell'ospedale San Salvatore di viale Nizza, dove ancora sono visibili sia gli ambienti monastici e sia la bella chiesa di Sant'Agnese.

Le serve, a servizio dei nobili (ed anche trastullo per i signori), conoscevano ovviamente i segreti delle case gentilizie, che mettevano sistematicamente in piazza, a voce alta.


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LA REPRESSIONE DELLA MALDICENZA
La maldicenza, con gli insulti e le offese, furono dunque essenza del vivere della città confederata. In particolare, anche per la fame endemica, del popolo minore che, partecipe della vita della città libera, governata dalle Arti o dalla nobiltà (come nel caso dei Camponeschi), fu lo strato sociale più ricettivo del generale e diffuso uso della maldicenza per vincere - si pensi - finanche le guerre.

Sì, le guerre!

Come nel caso di quella sanguinosa contro Andrea Braccio Fortebbraccio da Montone (maggio 1423-giugno 1424), contro il quale, dall'alto delle mura, gli aquilani inviavano ogni sorta di invettiva.

Contro questa essenza di vita laica, reagirono con fermezza i vescovi reprimendo anche i pur minimi cenni di cedimento dei fedeli. A questo proposito si rivelò esiziale l'editto del 1315 che prevedeva multe per «coloro che fanno regali troppo costosi in occasione di battesimi e cresime». Alimentò infatti malevoli, ma non sempre, riferimenti a paternità o maternità inconfessabili, che divenivano certezze assolute il giorno delle verità rivelate di Sant'Agnese. Da queste verità scaturì poi l'espressione: è figlio a parecchi signori, rivolta a persona schifiltosa.

Più seria appariva ed era la maldicenza scanzonata quando si sostituiva all'insofferenza, se non alla ribellione al potere. Repressa con particolare rigore, come prova l'editto del 1430, che fissava per popolo e nobiltà: «l'esilio perpetuo ed il taglio della lingua a chi arringasse contra l'indizione della festa del perdono di Celestino V». Si ricorse allora ad una sottigliezza interpretativa per cui i popolani si diedero «a parlar male delle singole persone, a qualunque ceto appartenessero», senza toccare le istituzioni.


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DAL SETTECENTO AL XXI SECOLO
Dunque, una Festa strana che all'inizio prese le classi sociali più basse ed i diseredati, ma successivamente, ed ancor più dalla fine del Settecento, si diffuse a tutti i livelli, soprattutto fra la borghesia e la nobiltà, attraverso l'istituzione delle confraternite laiche, subendo trasformazioni notevoli nel divenire del tempo.

Nei primi del '900 le agapi del 21 gennaio - dei popolani (organizzati dalle confraternite dei barbieri), dei borghesi e dei nobili - si risolsero spesso in incontri di critica e protesta di stampo anticlericale e anarchico-massonico. Motivi per i quali durante il Ventennio fascista furono rigorosamente vietate.

La Festa strana non acquisì mai una fisionomia netta e decisa, per le contaminazioni sostanziali popolari subite dal rito tradizionale. Al semplice cerimoniale che prevede l'elezione del solo priore, negli ultimi 30 anni, alcune Confraternite hanno aggiunto delle nomine del tutto di fantasia (anche volgari).

Nel suo divenire, circa 25 anni or sono - dopo un ennesimo diniego dei Devoti di Sant'Agnese ad ammetterle nella propria Confraternita - le donne crearono un loro monistero agnesino entro il quale altissimo è il giuoco della maldicenza.

Resta fedele alla tradizione la nobilissima Confraternita Aquilana dei Devoti di S.Agnese- Sacta Agnes Garrulorum Praesidium , la più antica dell'era moderna, risorta nel 1959 per

volere di noti professionisti del tempo, la cui ara sacra, da oltre 40 anni, è fissata nel ristorante S.Biagio, nella piazza omonima. Entro cui da sempre i Devoti agnesini convocano gli aquilani perché, in qualche misura, tutti siano investiti dal profumo degli ideali dell'aquilanità.


Amedeo Esposito - Priore emerito 1999
- 41/mo ed ultimo del secolo XX -
corrente l'anno del Priore Angelo De Nicola, quarto del XXI secolo



(1) Confronta Mario Lolli (torna all'articolo)

(2) I suoi 750 e passa anni di vita la rendono giovanissima rispetto ad altre secolari città comprese le romane Chieti e Teramo. (torna all'articolo)

(3) I cardinali, al momento della loro nomina, assumono titolarità delle antiche basiliche romane. Nel 1954 al cardinale Carlo Confalonieri, Antico Arcivescovo dell'Aquila, venne assegnata la titolarità della Basilica di Sant'Agnese. Chissà se per la fama della Santa laica festeggiata all'Aquila. (torna all'articolo)

(4) Il pallio è la benda di lana, con sei croci di seta nera e ornata da tre spille gemmate, in orgine portata solo dal Papa, poi concessa anche agli Arcivescovi. (torna all'articolo)

(5) Vedi pubblicazione (torna all'articolo)

(6) vedi tesi laurea (torna all'articolo)

(7) vedi Luigi Lopez (torna all'articolo)

(8) Raffaele Colapietra - seconda relazione: dalle acque dlla rivera al mercato della Pizza: il Quarto di S.Giovanni di Lucori (S.Marciano), in ArteCittà. supplemento al n. 0 della rivista "Aretra", Anno I - Agosto '87. ,pg. 13 (torna all'articolo)

(9) - pagg. (torna all'articolo)

(10) - A.C.A. V48 - Il capitolo 687 redatto sotto forma di reformagiobne datato 10 maggio 1434 ordina per l'onore e il rispetto che si deve a Dio e a S.Pietro Celestino, che nella festa di S.Pietro protettore e difensore della città si corra un palio del valore di 25 ducati d'oro e ciascun Castello offra alla chiesa di S:Maria di Collemaggio un cero del peso non inferiore di otto libre. Si stabilisce inoltre che si nomino tre responsabili per quartiere che organizzino un ballo che si svolga in tutta la città per i quattro giorni precedenti la festa e per tre giorni prima della vigilia, che ogni sea siano chiuse ai vespri le botteghe affinché si possa svolgere il ballo della viglia e che nel corso della festa non si lavori ne si aprano le borreghe sotto la pena di un oncia d'oro senza diminuzione. Il Camerario e i Cinque siano tenuti sotto il vincolo di giuramento e del pagamento di un'oncia per ciascuno nel momento in cui prendono possesso del loro ufficio, oveverosia le calende di maggio, a far bandire la presente reformagine e che in nessun modo sotto qualsiasi pretesto la presente reformagione possa essere annullata o in ogni modo sospesa e che in ogni tempo attenga piena validità e se qualcuno avrà tentato o avrà fatto propaganda per far annullare questa reformagione o sospendere, il Camerario e Cinque riotteno immediatamente chi svolgerà tale propaganda nelle mani del Capitano affinché allo stesso sia amputata la lingua e per tutto il tempo della sua vita sia esule dalla città e dal comitato. (torna all'articolo)