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RIFLESSIONI SU S. AGNESE E MALDICENZA


a cura di Carlo Di Stanislao
da www.ilcapoluogo.it, 13 gennaio 2006
(leggi in originale)


Il pettegolezzo è il sale della vita,
la maldicenza l'oppio dell'oppresso
Erica Jong




L'Aquila, 13 gen. - Non viviamo più in tempi in cui le parole hanno un peso, un senso, un significato. Tutto si spegne e si stempera, s’inaridisce in una nebuloso ed indifferenziato pressappochismo. La tradizione, i riti, gli ideali sembrano usciti dai nostri vocabolari e dalle nostre logiche. Oggi, al massimo, concepiamo il gossip, il pettegolezzo, la maldicenza, secondo principi mediatici che sfiorano la paranoide, palpitante pochezza di questi tempi barbari e assurdi. Se barbari erano gli stranieri, come non ritenerci tali, estraniati dai lombi e dalle tradizioni che ci hanno generati.

S. Agnese è tradizione aquilana indotta dal desiderio rionale di sano antagonismo strapaesano ed allora come non ricordare l’origine ebraica del “benedire” e “maledire”, dare cioè forza o forza togliere al nostro vicini, parimenti, ed in momenti diversi, paesano o avversario. Nell’Italia delle tradizioni il giorno della santa di Montepulciano (il 21 gennaio) si celebrano feste di natura diversa. A Brescia i giovani attendono le fanciulle da marito fuori dalla chiesa e le corteggiano con motti di spirito e proposte audaci. Un’analoga liturgia si svolge a Vercelli, ma con rituali “seduttori” rivolti a tutte le donne, anche quelle con marito.

La festa aquilana di S. Agnese è detta “delle lingue lunghe” o “sozze” e, a tutta prima, sembra essere un trionfo della maldicenza in senso retrivo e negativo. I teologi ci informano che se riuscisse a togliere la maldicenza dal mondo, svanirebbero gran parte dei peccati e la cattiveria. Strappare il buon nome al prossimo, oltre al peccato di cui si grava, rimane l’obbligo di riparare in modo adeguato secondo il genere della maldicenza commessa.

Ma qui non si vuole uccidere nessuno, solo mettere in luce i difetti (e difettucci) del “fuori dal rione”, del diverso da sé, molto spesso, attraverso lui, mettendo alla berlina i lati “in ombra” di noi stessi. D’altronde, trovare motivi di maldicenza non è difficile, perché, nessuno è perfetto e non è infallibile. E’ stato scritto che non è "maldicenza" riferire il vero, non è peccato difendere la giustizia e far conoscere le cose che devono essere conosciute".

Ecco il segreto della nostra festa delle lingue sozze: partire dalla verità, percorrere un senso di giustezza (se non di giustizia) e ridurre tutto ad un lazo, senza alcuna ingiuria o offesa mortale. Don Marzio, malalingua viperina della "Bottega del caffè" di Carlo Goldoni, è forse il più famoso maldicente della nostra letteratura, perché è quello che non sa interessarsi del prossimo se non per malignità e per amore del pettegolezzo. Ma questo non avviene solo nella letteratura. Spesso si verifica anche nella vita di tutti i giorni, tant'è vero che è diventato proverbiale: "è un don Marzio" si dice, infatti, di un pettegolo maligno, di un maldicente. Spesso confondiamo pettegolezzo e maldicenza.

Ma la maldicenza è strettamente imparentata con la menzogna e calunnia. Il pettegolezzo, invece, ha un certo rispetto per la verità. Le persone pettegole non si propongono distruggere la reputazione di una persona attraverso fatti distorti ma di svelarne la vera identità morale. In sostanza il loro obiettivo è quello di stabilire come siano andate veramente le cose, di valutare le azioni di qualcuno del proprio gruppo, oppure di una persona temuta, che viene così "ridimensionata".

Il pettegolezzo infatti è il modo ideale per insinuare dubbi nell'opinione altrui sull'immagine che una persona vuole dare di sé. Dal veneziano petégolo, probabile derivazione di peto con allusione all'incontinenza verbale dei pettegoli, per pettegolo intendiamo di massima uno che ha il piacere di parlare e sparlare di tutto e tutti, ingigantendo e rendendo sensazionali le voci e le informazioni che circolano. A volte si pettegola per movimentare una conversazione noiosa, a volte per calamitare l'attenzione su di sé, per diventare centro della scena, a volte per far del bene a qualcuno.

Alcuni pettegolano per creare intimità. I pettegolezzi nella maggior parte dei casi sono innocui, ma vi sono situazioni in cui possono assumere quegli aspetti negativi ed insinuati che alimentano la sua cattiva fama. Le cose riferite possono anche essere vere, ma se sono fine a se stesse, gonfiate, interpretate in senso negativo, un pettegolezzo può assumere la forma della malignità e della denigrazione, per lo più ingiustificate e gratuite. Quando poi le cose riferite sono intenzionalmente false e attribuiscono a una persona delitti e peccati inesistenti per distruggerne la credibilità e la reputazione diventa maldicenza, calunnia.

La nostra, quindi, è festa e trionfo del pettegolezzo bonario e non della maldicenza assassina. L’origine della nostra strana festa, come si sa, è trecentesca. In quel periodi i maggiorenti della città i riunivano vicino alla Porta Rivera e più precisamente vicino il monumento della "Fontana delle 99 Cannelle”, magari davanti a un buon bicchiere di vino. Per parlare del più e del meno, di politica e di corna, di fatti e misfatti accaduti a conoscenti.

Ci fu un periodo (nel ‘400) in cui i pettegolanti Don Marzi aquilani furono bandati con editto cittadino che prevedeva, se infranto, la morte. La storia non ci tramanda il tempo dell'esilio, ma sappiamo che, dopo non molto, le proteste delle madri, delle mogli e dei figli furono tante che i governanti si videro costretti a far rientrare gli esiliati, ma ... ad un patto, che mai più avrebbero "sparlato" delle altrui genti.

Era il 21 gennaio, Santa Agnese, e proprio per questo motivo gli Ex esiliati furono appellati: "quelli de Santa Agnese" Ma, come il proverbio vuole, "il lupo per il pelo e non il vizio" e fu così che, rispettando il giuramento di non continuare il loro passatempo dentro le mura trovarono il modo di continuare la tradizione fuori delle stesse.

Appena fuori le mura della città venne fatta trovare una tavola ben apparecchiata, e con del buon vino; in tal modo i signori della lingua sciolta potevano continuare la tradizione senza infrangere la solenne promessa. Oggi “quelli di S. Agnese” sono più numerosi, democraticamente più diffusi nelle diverse aree sociali e, ancora, rientrati in città. Il lazzo e la diceria sono bonarie, mai in grado di infliggere ferite troppo gravi o profonde.

Carlo Di Stanislao