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Convegno 2004 - Rassegna stampa

MALDICENZA, PIÙ LA MANDI GIÙ E PIÙ TI TIRA SU

Raffaele Simone
"Il Messaggero", 6 gennaio 2004

Una capitale delle malelingue ci voleva, e se l'Aquila si è procurata questo titolo (con la protezione, sembra, di sant'Agnese) qualche ragione ci sarà pur stata. Per questo, mi pare naturale che si tenga proprio in quella città, il 10 gennaio, il primo congresso sulla maldicenza.

Il tema che il congresso ha dinanzi non è da poco. Si può "dire male" di qualcuno in vari modi, che si possono ordinare lungo una scala di perfidia crescente. Anzitutto c'è il pettegolezzo: si parla coram populo degli affari degli altri, specialmente di quelli riservati (sempre gli stessi: amori e sesso, denaro, malattie, relazioni), rendendo pubblico quel che non lo è.

Poi c'è la critica ad ogni costo ("tagliare i panni addosso"), consistente nel mettere in rilievo, di una persona, solamente i difetti, i fallimenti e gli spropositi. Più avanti nella scala metterei il pettegolezzo mendace, che induce a inventare storie (per lo più denigratorie) di sana pianta e ad attribuirle a qualcuno per metterlo in cattiva luce. Infine, al grado estremo, vedrei la iettatura: lanciare addosso agli altri cattivi auguri contando che abbiano effetto.

La maldicenza e in generale il "dire cose cattive" sono temi terra terra solo in apparenza. Pochi sanno, ad esempio, che sono al centro dell'attenzione di filosofi e teologi. Nella tradizione cattolica la maldicenza è infatti catalogata come un peccato ed è una cosa da raccontare al confessore.

In un bellissimo libro del 1987 (I peccati della lingua, edito dall'Istituto della Enciclopedia Italiana), Carla Casagrande e Silvana Vecchio hanno ricostruito con grande perizia il modo in cui i filosofi medievali classificavano le complicate arborescenze delle opere cattive che si possono commettere con la parola: la maldicenza era tra i più gravi.

Naturalmente, in quell'epoca (e sicuramente anche ora), quei "peccati" erano considerati tipici delle donne: supposizione maligna e a sua volta maldicente, dato che gli uomini con la lingua lunga non sono certo meno numerosi delle loro controparti.

Il comunicato stampa del congresso aquilano ricorda che la maldicenza è anche uno strumento di "valenza sociale e di vero antagonismo". Suppongo che questa formula voglia dire che la maldicenza fa paura, a chi ne è vittima e a chi la pratica, anche perché può entrare in circolazione nella società. A pensar male, dice un famoso motto, si fa peccato ma ci si indovina. Si può aggiungere che, a parlar male, si fa peccato ma un risultato lo si ottiene lo stesso: una volta messa in circolazione, infatti, la maldicenza si attacca inspiegabilmente alla sua vittima e può restarle incollata addosso per sempre, come un cancro rabbioso.

Ma com'è possibile questo, se la maldicenza non è che una sequela di parole, di "flatus vocis", di futili suoni che svaniscono nell'aria? Sigmund Freud ha proposto un'interpretazione che a me pare, a distanza di quasi un secolo, ancora molto solida, parlando di "potenza della parola" e di "onnipotenza del pensiero".

"Originariamente - spiega ad esempio nell'Introduzione alla psicoanalisi (1917) - le parole erano magia, e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l'altro o spingerlo alla disperazione, (...) con le parole l'oratore trascina con sé l'uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni".

La malalingua, come lo iettatore, conta proprio su questo: è convinto che le parole (cattive) che pronuncia a proposito di qualcuno possano diventare realtà per il solo fatto di essere dette.

La maldicenza è paradossalmente affine all'augurio, perché si basa sullo stesso principio: anche quando si dice a qualcuno "Buon Natale!" ci si aspetta che queste parole "agiscano". Freud faceva un passo ulteriore, delicatissimo: il potere magico della parola è all'origine delle religioni. "E Dio disse: "Sia la luce!", e la luce fu".

La malalingua, in fondo, vive in una sorta di delirio di divinità: pensa che basti dire, come Dio, qualcosa (di cattivo) a proposito di qualcuno, perché quella cosa si trasformi in realtà. Il guaio è che a volte ci riesce...

Raffaele Simone